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FURYO
(SENJO NO MERRY CHRISTMAS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 19 aprile 1984
 
di Nagisa Oshima, con David Bowie, Tom Conti, Ryuichi Sakamoto, Takeshi Kitano (Giappone - Gran Bretagna, 1983)
 
Girato in Nuova Zelanda, con una squadra per metà giapponese e per metà occidentale, musicato e messo in scena con delle atmosfere che per qualche istante si potrebbero definire hollywoodiane (oltraggio supremo per l'autore dei rituali rigorosissimi dell'Impero dei sensi o di La Cerimonia... ), basato su un tema che ricorda talvolta quello di Coppola in Apocalypse Now, Furyo è un film complesso e contraddittorio, esaltante e deludente, splendido e confuso. Ma mai scialbo o banale. In un periodo di opere cinematografiche anche valide ma quasi sempre programmate, inserite in un sistema di consumo d'immagine vieppiù esasperato, ecco una ragione per non mancare il film di Oshima.

Storia di prigionieri di guerra, di conflitti di forza all'interno di uno spazio ben definito e coercito, Furyo non è Il ponte sul fiume Kwai. Non è (o almeno, lo è solo in parte) il tema umanista dello scontro fra due culture, della fratellanza umana, dell'assurdità della guerra che si diverte a capovolgere i rapporti di potere fra popolo e popolo. Anche se quest'aspetto del film, il più evidente, porta ad una scena magnifica, quella che serve ad epilogo del film e che ricorda, nelle idee se non nella forma La règle du Jeu di Renoir. Scena nella quale il medico inglese ed il sergente giapponese si ritrovano, quattro anni dopo la fine della guerra, a ruoli rovesciati: "lei è vittima di gente convinta di aver ragione" -dice Lawrence a Hara- "esattamente come lei stesso era convinto, allora, di avere ragione".

Furyo deve la sua grandezza ad un secondo tema che viene a sovrapporsi a quello umanista: la diversità e la passione, intese come infrazioni a delle situazioni morali o sociali eterne. Giapponesi e Occidentali (ma, si badi bene, non occidentali qualsiasi, bensi inglesi: guidati come i giapponesi, da un culto per la regina o l'imperatore, per una gestualità controllata, rituali d'iniziazione, tradizione guerriera, carattere insulare... ) sono in teoria forti e deboli. Ma in effetti, identici e doppi: retti, i prigionieri come i carcerieri, da una disciplina gerarchica propria. Prima dell'arrivo dell'ufficiale inglese, l'angelo biondo e ambiguo che David Bowie interpreta con perfetta androginia, l'ordine dettato dal sergente Hara e subito dal comandante occidentale Hicksley è perfetto. Al di sopra delle due culture, che si accostano, si scontrano, ma in definitiva accettano le regole del gioco, sta il medico Lawrence, l'unico che parla le due lingue. E il punto di vista del racconto, l'elemento di raziocinio, di riflessione umanista.

Tutta questa struttura sarà spazzata dall'irruzione dell'inconscio: Hara il bruto, Hicksley il militare, Lawrence il colto e l'umanista verranno sopraffatti nella loro logica dalla coppia Yonoi-Celliers. Da quel momento nuove regole (metafisiche, spirituali, passionali, degenerate o semplicemente "diverse") governeranno il campo di prigionia ed il film. E se il tema umanista di Furyo si conclude nell'epilogo di cui sopra quello deviante trova la sua conclusione in due momenti altrettanto superlativi. L'oramai celebre bacio del prigioniero Celliers al comandante del campo Yonoi; e l'omaggio rituale di quest'ultimo a Bowie, sepolto fino al collo nella terra. Mentre Yonoi taglia una ciocca di capelli bioridi, una farfalla nottuma, bianca e perversa, viene a bucare la luce bluastra e a posarsi sul viso dell'angelo-demonio morente.

Il proibito esaspera l'attrazione, il desiderio fra gli esseri umani. E uno dei grandi temi di Oshima che si sviluppa qui nell'impossibile passione fra due militari e nemici. Per tutta la durata del film il regista giapponese declina questi temi opposti e contraddittori riportandoli formalmente a quell'ordine simmetrico caro ai grandi cineasti giapponesi. Il fatto di esserci riuscito anche se non perfettamente (i discutibili flashback che dovrebbero spiegare la psicologia di Celliers, la costruzione ad incastro di certi episodi che rendono la comprensione del tutto non sempre evidente) lo confermano oltre che poeta della trasgressione, indagatore profondo del malessere contemporaneo.


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